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Becchetti constata l’intrinseca ipocrisia che si cela nell’'ossessione per la perfezione etica e morale’. Ossessione ipocrita poiché non considera un ‘dato antropologico fondamentale’, ovvero l’imperfezione morale che caratterizza ogni uomo. Ossessione, come osserva l’autore, in cui può inciampare anche la responsabilità sociale e ambientale d’impresa.
‘La saggezza non sta nel cercare persone cento per cento buone o ancor peggio nel proclamarsi tali… il fatto che possano emergere di tanto in tanto fatti negativi e scandali in una percentuale limitata di virtuosi fa parte della normalità "statistica" del nostro esistere (seppur non perda nulla della propria gravità)’.
Non per questo l’impossibilità di distinguere un bene assoluto da un male assoluto significa negare entrambi. Piuttosto, porsi come obiettivo l’orizzonte del ‘bene’ comporta l’essere consapevoli che il percorso è fatto anche di cadute e di ‘scandali’. Chi sbaglia è giusto che si assuma le sue responsabilità, ma chi gode degli errori altrui e si erge a giudice spesso lo fa per giustificare la propria passività e per continuare a crogiolarsi nell’idea di un mondo ‘che gira così’ e che è inutile tentare di cambiare.
‘L’errore del 'virtuoso' mantiene tutta la sua gravità e merita di scontare una 'condanna' morale e civile. Ma l’errore di chi lo giudica e ne approfitta per trovare conforto alla propria passività è un’autocondanna altrettanto grande’. Queste le parole con cui si chiude l’articolo di Becchetti. Noi possiamo solo aggiungere che crediamo nella responsabilità sociale d’impresa non come ricerca ossessiva di perfezione etica, ma come strumento utile di trasparenza, come percorso (di certo pieno di ostacoli) volto a innescare cambiamenti.