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Planet of the Humans|Uno sguardo sotto il velo

Planet of the Humans

Foto di Steinar Engeland da Unsplash

di Mara Pedrazzini | 19 novembre 2020

A volte basta un nome per creare pruriti e annusare aria di provocazione. Basta un nome per creare aspettative. Forse lo sospettavano anche Michael Moore e Jeff Gibbs quando hanno deciso di esprimere il loro punto di vista sul movimento ambientalista contemporaneo.

Planet of the Humans, girato da Gibbs e prodotto da Moore, è uscito ad aprile, in occasione dell’Earth Day, ed è stato un po’ come sentir gridare: “Al mio segnale, scatenate l’inferno!”.

Il popolo ‘verde’ si è ritrovato a fare i conti con un grillo parlante sulla parete e, come il resto dell’opinione pubblica, ha scosso la testa o ha annuito, si è ritrovato o non si è riconosciuto, ha reagito. Ecco, ciò su cui vorrei soffermarmi è che questa reazione, l’incresparsi della superficie dell’acqua, ci ha resi consapevoli di quanto fosse piatto e calmo il mare su cui stavamo navigando.

Quale la causa di tutto questo trambusto?

La risposta più diretta e semplice è che Jeff Gibbs dice cose che ad alcuni non piacciono e ad altri invece sì. Quindi? Ognuno la pensa a modo suo? In un certo senso… ma, cambiando prospettiva, si potrebbe invece considerare il fatto che tutti hanno pensato qualcosa. Ora… ognuno può decidere di tenersi stretto il proprio pensiero o di metterlo a confronto con quello degli altri. Confronto è la parola magica. Ben venga il pensiero libero, capace di differenziarsi e di mettersi in discussione. Avevamo bisogno di spalancare la finestra e lasciar entrare aria nuova, anche a costo di far sparpagliare le carte impilate sulla scrivania.

Quali sono queste cose che ha detto Gibbs?

Proviamo a elencarne qualcuna:

  • la filiera dell’energia solare ed eolica impatta sull’ambiente e, al momento, la sua tecnologia non è riuscita a risolvere i problemi legati all’intermittenza e allo stoccaggio di energia;
  • bruciare biomasse, soprattutto alberi, incentiva la deforestazione, inquina, distrugge la biodiversità;
  • la transazione energetica, concepita come mezzo per poter preservare uno stile di vita e per continuare a consumare nello stesso modo, non cambia l’approccio predatorio dell’uomo nei confronti del pianeta;
  • le tecnologie verdi, intese come strumento di salvezza, rischiano di diventare oggetto di una fede cieca;
  • servirebbe riflettere sulla prospettiva di curare con l’industrializzazione le ferite che l’industrializzazione stessa ha causato;
  • l’uomo è un essere vivente che uccide, brucia, distrugge – quindi consuma – pezzi del pianeta di cui egli stesso fa parte;
  • potenti investitori e fondazioni, politici e imprenditori miliardari spingono verso il cosiddetto capitalismo verde;
  • Gibbs definisce il profitto un altro tabù col quale misurarsi; in un contesto in cui la priorità resta il ‘margine di guadagno’, questioni come il sovrappopolamento, il divario tra ricchi e poveri e il concetto di consumo rischiano di restare in secondo piano anche nel ‘green’;
  • alcune associazioni ambientaliste hanno accettato il supporto economico di potenti imprenditori ed esponenti politici; secondo il regista, in questo modo, tali associazioni perderebbero forza e libertà – non solo intellettuale;
  • la questione ambientale è complessa e nella sua complessità va considerata; concentrare la maggior parte delle forze esclusivamente sul cambiamento climatico potrebbe risultare controproducente.

Perché gli ambientalisti si sono arrabbiati?

Un altro rapido elenco:

  • ritengono che il documentario faccia cattiva informazione, insinui dubbi, generi confusione, mettendo così a rischio i risultati raggiunti da un movimento che ha faticato per riuscire a farsi ascoltare;
  • rispetto al solare e all’eolico, Gibbs ha usato dati vecchi e imprecisi; in generale, ha fatto un collage di materiali diversi, tolti dal loro contesto e usati per creare una narrazione fuorviante;
  • rispetto alle biomasse, leader dei verdi quali Bill McKibben – direttamente tirato in causa da Gibbs nel documentario – hanno cambiato opinione e posizione già prima dell’uscita del film;
  • la visione di Gibbs è troppo apocalittica e allarmista, nega ogni speranza;
  • l’affermazione “troppi esseri umani che consumano troppe risorse troppo rapidamente” significa forse che occorre pensare a un futuro a crescita demografica controllata?
  • il documentario sembra supportare le tesi di coloro che negano l’esistenza di un problema ecologico e ambientale e anche di coloro che ritengono non ci sia soluzione al consumo del pianeta da parte dell’uomo;
  • collaborare con la politica e accettare contributi economici da importanti finanziatori non intacca la libertà d’azione e di pensiero dei leader ambientalisti, il cui obiettivo è riuscire a innescare un cambiamento radicale e profondo per il quale serve raggiungere più persone possibili.
Planet of the Humans

Foto di Tiago Fioreze da Unsplash

Cosa ne penso io?

Ho aspettato un po’ di mesi, ho guardato il documentario, letto articoli a riguardo e alla fine mi sono chiesta: “Ne è valsa la pena?”. È valsa la pena seguire la narrazione di Gibbs? È valsa la pena ascoltare le opinioni della difesa e dell’accusa? Sì, ma poiché non sono né il giudice né la giuria di questo processo, non posso e non voglio discutere dei dati e della loro correttezza, non desidero assolvere qualcuno e condannare qualcun altro.

Non mi sembra utile cristallizzare delle dicotomie, dividere i puri dai peccatori, le soluzioni giuste da quelle sbagliate e sospetto che non fosse – solo? – questo l’intento di Gibbs e Moore. Questo documentario e il successivo dibattito mi consentono di ragionare proprio sul fatto che se non c’è spirito critico, autoanalisi, quindi ‘movimento’, anche in seno ad ognuna di due posizioni differenti, il confronto diventa sterile, il pensiero si arrocca e si immobilizza.

Penso che lo scopo di una riflessione sia preservare la complessità, comprenderla e indagarla.

Parte del movimento ambientalista si è sentito attaccato, mal interpretato e mal rappresentato da questo documentario. Però qualcosa si è mosso, ad un’azione è corrisposta una reazione che può trasformarsi in un’occasione di discussione interna e di nuova energia. Il movimento è forza vitale e non pensiero stagnante.

“Reggetevi sulle vostre gambe e cercate di trovare ogni giorno, fra le vostre proprie contraddizioni e le contraddizioni che la vita vi oppone, un movimento”

Sono parole di Albert Camus, lo stesso Camus di cui troviamo una citazione fugace anche in questo documentario.

Gibbs ha espresso un’opinione e sostenuto delle tesi che non siamo tenuti a condividere e sposare. Possiamo però decidere di ascoltarle, comprenderle e indagare a nostra volta quella complessità da cui tutti partiamo.

Le tecnologie verdi – che preferisco chiamare alternative – hanno dei limiti e gli esseri umani sono essi stessi limitati e imperfetti; ignorare consapevolmente il concetto di limite ci porta ad affidare alla tecnologia un potere salvifico, a darle il compito di rispondere alle nostre paure e ai nostri bisogni. La transazione energetica, considerata solo come sostituzione di una fonte di energia con un’altra, rischia di escludere il cambiamento culturale che dovrebbe accompagnarla e sostenerla e cioè che dobbiamo imparare a consumare meno e meglio. Il cambiamento climatico esiste, è allarmante, è insensato negarlo, ma se lo consideriamo e affrontiamo svincolandolo dall’impatto – ecologico, sociale ed economico – della filiera tecnologica ‘verde’, dal sovrappopolamento e anche dal divario tra ricchi e poveri, potremmo perderci pezzi del problema che vogliamo risolvere.

Gibbs ammonisce sulla necessità di ripensare il nostro stile di vita consumistico. Mi rendo conto della difficoltà e della delicatezza richieste da un confronto culturale su questo tema, poiché si tratta di un cambiamento davvero profondo. So che nel frattempo bisogna fare, rimediare, aggiustare e prevenire, ma a cosa serve tutto questo agire se non si accompagna a un nuovo modo di abitare il mondo? Abitare, non consumare. Planet of the Humans ha il pregio di ricordarci che il cuore, il punto di partenza e d’arrivo, siamo noi, gli uomini, e la percezione che abbiamo di noi stessi come forma di vita predominante. Gibbs non usa il termine decrescita, mette in discussione la spinta verso una crescita economica infinita, parla di un meno che diventerà il nuovo più. Io avrei aggiunto un meglio: crescere e consumare un po’ meno e molto meglio. Si può riflettere su questo? Credo di sì. Questa prospettiva non è anacronistica, perché il suo obiettivo è contribuire e sostenere la lotta alla povertà, al cambiamento climatico, alla deforestazione, all’inquinamento provocato dalla plastica…

Non credo che questo documentario sia privo di speranza, mentre sì, è apocalittico se consideriamo che il termine apocalissi originariamente indicava un disvelamento: sollevare il velo per guardare sotto di esso. E sotto c’è l’umanità, contradditoria e in movimento. È guardando esattamente in quel punto che forse troveremo la speranza.

“Non c’è che una sola libertà: mettersi in regola con la morte. Dopo di che, tutto è possibile” Albert Camus.
Planet of the Humans

Foto di Simon Wijers da Unsplash

Planet of the Humans

Questo titolo mi ha immediatamente riportato alla mente Il pianeta delle scimmie, saga cinematografica che ammetto di non aver mai visto e che ho scoperto essersi ispirata al romanzo di Pierre Boulle, “Viaggio a Soror. Il pianeta delle scimmie”. Lo scrittore non ha mai pensato al suo lavoro come a un romanzo di fantascienza, ma piuttosto di pura fantasia. Boulle affida alle scimmie il compito di scimmiottare gli esseri umani, il loro sentirsi il punto più alto della piramide evolutiva, il senso di onnipotenza di un sapere non più messo in discussione. “[…] nel mio libro le scimmie sono uomini, non c’è alcun dubbio”. Sostiene in un’intervista con Pierre Desgraupes, nella quale spiega anche che l’idea di far interpretare gli uomini a delle scimmie gli è venuta osservando reazioni e comportamenti umani, che, in alcune situazioni, sembrano appartenere ad esseri privi di raziocinio e intelligenza.

Planet of the humans lascia tutti al loro posto, esseri umani e scimmie.

Jeff Gibbs sceglie di raccontarsi attraverso il suo documentario che, in effetti, assume la dimensione – in parte anche intima – della presa di coscienza di un ambientalista di lungo corso. Può sembrare un modo per ribadire da che parte sta – e forse questo non era necessario – ma sono più propensa a interpretare questa scelta come il volersi assumere la responsabilità del suo punto di vista e delle sue riflessioni.

Poco dopo la copertina di Primavera silenziosa”, ci mostra un bambino che vuole vendicarsi contro dei bulldozer, perché hanno sradicato gli alberi vicino a casa sua. Il bambino diventa un giovane che questi stessi alberi li abbraccia, quindi un uomo che costruisce una casa ecosostenibile, che gira il suo paese per documentare il proliferare di specie invasive e il collasso degli ecosistemi. E dopo? Dopo è come se quel bambino, diventato davvero adulto, abbia avuto la necessità di fermarsi a osservare ciò che aveva fatto fino a quel momento. La narrazione vera e propria comincia da qui, dalla volontà di capire il punto da cui ripartire per un’altra fase della vita, la sua come uomo e quella del pianeta per cui ha sempre pensato valesse la pena lottare.

Gli alberi non scompaiono mai dal racconto di Gibbs. Strappati alla terra, vengono consumati dall’uomo, dati in pasto agli impianti a biomassa o bruciati per lasciare spazio ad altre coltivazioni – canna da zucchero, mais e soia – destinate a produrre biocombustibile.

E quando l’acqua spegne gli incendi, quando gli alberi si sono fatti cenere e, impastati alla terra, diventano fango, al suolo languono gli oranghi dal corpo devastato dall’avidità dell’uomo. Hanno gli occhi rivolti al cielo, occhi troppo simili ai nostri.

È una storia di esseri umani, alberi e scimmie. Gibbs l’ha raccontata, possiamo decidere se leggerla e come leggerla.