di Mara Pedrazzini | 19 novembre 2020
A volte basta un nome per creare pruriti e annusare aria di provocazione. Basta un nome per creare aspettative. Forse lo sospettavano anche Michael Moore e Jeff Gibbs quando hanno deciso di esprimere il loro punto di vista sul movimento ambientalista contemporaneo.
Planet of the Humans, girato da Gibbs e prodotto da Moore, è uscito ad aprile, in occasione dell’Earth Day, ed è stato un po’ come sentir gridare: “Al mio segnale, scatenate l’inferno!”.
Il popolo ‘verde’ si è ritrovato a fare i conti con un grillo parlante sulla parete e, come il resto dell’opinione pubblica, ha scosso la testa o ha annuito, si è ritrovato o non si è riconosciuto, ha reagito. Ecco, ciò su cui vorrei soffermarmi è che questa reazione, l’incresparsi della superficie dell’acqua, ci ha resi consapevoli di quanto fosse piatto e calmo il mare su cui stavamo navigando.
Quale la causa di tutto questo trambusto?
La risposta più diretta e semplice è che Jeff Gibbs dice cose che ad alcuni non piacciono e ad altri invece sì. Quindi? Ognuno la pensa a modo suo? In un certo senso… ma, cambiando prospettiva, si potrebbe invece considerare il fatto che tutti hanno pensato qualcosa. Ora… ognuno può decidere di tenersi stretto il proprio pensiero o di metterlo a confronto con quello degli altri. Confronto è la parola magica. Ben venga il pensiero libero, capace di differenziarsi e di mettersi in discussione. Avevamo bisogno di spalancare la finestra e lasciar entrare aria nuova, anche a costo di far sparpagliare le carte impilate sulla scrivania.
Proviamo a elencarne qualcuna:
Un altro rapido elenco:
Foto di Tiago Fioreze da Unsplash
Ho aspettato un po’ di mesi, ho guardato il documentario, letto articoli a riguardo e alla fine mi sono chiesta: “Ne è valsa la pena?”. È valsa la pena seguire la narrazione di Gibbs? È valsa la pena ascoltare le opinioni della difesa e dell’accusa? Sì, ma poiché non sono né il giudice né la giuria di questo processo, non posso e non voglio discutere dei dati e della loro correttezza, non desidero assolvere qualcuno e condannare qualcun altro.
Non mi sembra utile cristallizzare delle dicotomie, dividere i puri dai peccatori, le soluzioni giuste da quelle sbagliate e sospetto che non fosse – solo? – questo l’intento di Gibbs e Moore. Questo documentario e il successivo dibattito mi consentono di ragionare proprio sul fatto che se non c’è spirito critico, autoanalisi, quindi ‘movimento’, anche in seno ad ognuna di due posizioni differenti, il confronto diventa sterile, il pensiero si arrocca e si immobilizza.
Penso che lo scopo di una riflessione sia preservare la complessità, comprenderla e indagarla.
Parte del movimento ambientalista si è sentito attaccato, mal interpretato e mal rappresentato da questo documentario. Però qualcosa si è mosso, ad un’azione è corrisposta una reazione che può trasformarsi in un’occasione di discussione interna e di nuova energia. Il movimento è forza vitale e non pensiero stagnante.
Sono parole di Albert Camus, lo stesso Camus di cui troviamo una citazione fugace anche in questo documentario.
Gibbs ha espresso un’opinione e sostenuto delle tesi che non siamo tenuti a condividere e sposare. Possiamo però decidere di ascoltarle, comprenderle e indagare a nostra volta quella complessità da cui tutti partiamo.
Le tecnologie verdi – che preferisco chiamare alternative – hanno dei limiti e gli esseri umani sono essi stessi limitati e imperfetti; ignorare consapevolmente il concetto di limite ci porta ad affidare alla tecnologia un potere salvifico, a darle il compito di rispondere alle nostre paure e ai nostri bisogni. La transazione energetica, considerata solo come sostituzione di una fonte di energia con un’altra, rischia di escludere il cambiamento culturale che dovrebbe accompagnarla e sostenerla e cioè che dobbiamo imparare a consumare meno e meglio. Il cambiamento climatico esiste, è allarmante, è insensato negarlo, ma se lo consideriamo e affrontiamo svincolandolo dall’impatto – ecologico, sociale ed economico – della filiera tecnologica ‘verde’, dal sovrappopolamento e anche dal divario tra ricchi e poveri, potremmo perderci pezzi del problema che vogliamo risolvere.
Gibbs ammonisce sulla necessità di ripensare il nostro stile di vita consumistico. Mi rendo conto della difficoltà e della delicatezza richieste da un confronto culturale su questo tema, poiché si tratta di un cambiamento davvero profondo. So che nel frattempo bisogna fare, rimediare, aggiustare e prevenire, ma a cosa serve tutto questo agire se non si accompagna a un nuovo modo di abitare il mondo? Abitare, non consumare. Planet of the Humans ha il pregio di ricordarci che il cuore, il punto di partenza e d’arrivo, siamo noi, gli uomini, e la percezione che abbiamo di noi stessi come forma di vita predominante. Gibbs non usa il termine decrescita, mette in discussione la spinta verso una crescita economica infinita, parla di un meno che diventerà il nuovo più. Io avrei aggiunto un meglio: crescere e consumare un po’ meno e molto meglio. Si può riflettere su questo? Credo di sì. Questa prospettiva non è anacronistica, perché il suo obiettivo è contribuire e sostenere la lotta alla povertà, al cambiamento climatico, alla deforestazione, all’inquinamento provocato dalla plastica…
Non credo che questo documentario sia privo di speranza, mentre sì, è apocalittico se consideriamo che il termine apocalissi originariamente indicava un disvelamento: sollevare il velo per guardare sotto di esso. E sotto c’è l’umanità, contradditoria e in movimento. È guardando esattamente in quel punto che forse troveremo la speranza.
Foto di Simon Wijers da Unsplash
Planet of the humans lascia tutti al loro posto, esseri umani e scimmie.
Jeff Gibbs sceglie di raccontarsi attraverso il suo documentario che, in effetti, assume la dimensione – in parte anche intima – della presa di coscienza di un ambientalista di lungo corso. Può sembrare un modo per ribadire da che parte sta – e forse questo non era necessario – ma sono più propensa a interpretare questa scelta come il volersi assumere la responsabilità del suo punto di vista e delle sue riflessioni.
Poco dopo la copertina di “Primavera silenziosa”, ci mostra un bambino che vuole vendicarsi contro dei bulldozer, perché hanno sradicato gli alberi vicino a casa sua. Il bambino diventa un giovane che questi stessi alberi li abbraccia, quindi un uomo che costruisce una casa ecosostenibile, che gira il suo paese per documentare il proliferare di specie invasive e il collasso degli ecosistemi. E dopo? Dopo è come se quel bambino, diventato davvero adulto, abbia avuto la necessità di fermarsi a osservare ciò che aveva fatto fino a quel momento. La narrazione vera e propria comincia da qui, dalla volontà di capire il punto da cui ripartire per un’altra fase della vita, la sua come uomo e quella del pianeta per cui ha sempre pensato valesse la pena lottare.
Gli alberi non scompaiono mai dal racconto di Gibbs. Strappati alla terra, vengono consumati dall’uomo, dati in pasto agli impianti a biomassa o bruciati per lasciare spazio ad altre coltivazioni – canna da zucchero, mais e soia – destinate a produrre biocombustibile.
E quando l’acqua spegne gli incendi, quando gli alberi si sono fatti cenere e, impastati alla terra, diventano fango, al suolo languono gli oranghi dal corpo devastato dall’avidità dell’uomo. Hanno gli occhi rivolti al cielo, occhi troppo simili ai nostri.
Image by Sergey Gricanov from Pixabay
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